L'inganno
Svoltò a sinistra, in direzione nord-ovest, dove si estendeva la foresta il cui nome riempiva da giorni le testate di ogni quotidiano nazionale. Era già passata una settimana da quando due suoi amici vi si erano inoltrati per una passeggiata sotto la luce del vespro estivo, senza però fare più ritorno. La stampa sembrava aver colto la palla al balzo per pompare ad arte la leggenda della ninfa del sangue che, secondo il folklore locale, abitava il cuore della selva. Sciocchezze a parte, il ragazzo aveva deciso di aiutare le ricerche assieme a una sua cara amica. Si erano dati appuntamento agli stagnetti, probabilmente la zona più piacevole della foresta, e da lì avrebbero poi iniziato a cercare.
Percorse il sentiero boschivo ad ampie falcate e raggiunse la destinazione in poco tempo. Dapprima pensò che la sua amica fosse in leggero ritardo, ma dopo si accorse che dei vestiti stropicciati erano stati frettolosamente riposti su una roccia trapuntata di soffice muschio, proprio ai bordi del laghetto principale. Si avvicinò lentamente fino a poter guardare nell’acqua cristallina. Lei nuotava aggraziata tra i giacinti d’acqua e le ninfee, tornava a galla, si rituffava e ritornava su. Al ragazzo parve per la prima volta di vederla davvero: non aveva mai notato il suo incarnato luminoso, quasi etereo, adesso molle d’acqua. E i capelli, verdi di primavera… li riusciva ad annusare fin da lì, sapevano ora di ginestra e mezereo, ora di osmanto e mughetto. Li aveva intrecciati con una miriade di veroniche e ranuncoli in una pettinatura complessa ed elaborata, degna di una sposa del più ricco strato sociale. Era così bella in quello stagno, adesso che lo guardava di rimando coi suoi grandi occhi smeraldini, che si domandò come avesse fatto a non averla mai notata prima. Pareva sbocciata dall’argilla del fondale o appena staccatasi dalla scorza del gelso alle sue spalle. Doveva fare qualcosa, avrebbe fatto di tutto per venerare una simile divinità. Si affannò, in cerca di qualsiasi cosa da offrirle in dono, e l’occhio gli cadde su una piantina a foglie peltate, giusto affianco a lui, che aveva germogliato due meravigliosi fiorellini, uno rosso e uno viola. Ma non appena li colse, due urla strazianti di voci che riconobbe immediatamente lacerarono l’aria – i fiori parevano strillare nel dolore più lancinante. D’un tratto, l’atmosfera mutò. Si accorse che i grappoli di glicine sopra la sua testa erano occhi infilati su rami spogli e che la roccia su cui si stava sporgendo altro non erano che ossa incastrate meticolosamente fra loro. Gridò, cercandosi di rialzare, ma grovigli di sterpaglie e matasse di rovi avevano affondato le spine aguzze nella sua carne. Sollevò lo sguardo verso la sua amica, che ora ghignava. Non era più l’essere incantevole di poco fa, sembrava erosa dal male, come una splendida scultura consunta e rovinata dal tempo. «Rena» farfugliò, ma lei lo afferrò per il suo braccio bionico e lo trascinò con violenza nel fondale della viscosa pozza di sangue.
Un fiorellino bianco sbocciò dalla piantina a foglie peltate.